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Auto, Mes e Pnrr. Tre dossier diversi, che si vorrebbe tenere separati. E che, invece, sono percepiti come strettamente legati tra loro nella
partita che si sta giocando tra Roma e Bruxelles. Il governo Meloni e le istituzioni europee hanno una accesa dialettica in corso, che si associa spesso alle tensioni sulle politiche per i migranti, ma che sui tre temi economici principali finisce inevitabilmente per intrecciare i piani e alimentare congetture. E' una dialettica che i governi di ogni colore hanno sempre dovuto affrontare e che è naturale nella gestione dei pesi e contrappesi che regolano i rapporti tra la Ue e gli Stati nazionali.  Le decisioni europee, come quella sullo stop alle immatricolazioni di auto con motori a benzina e diesel dal 2035, incidono in maniera sostanziale sullo sviluppo industriale, a maggior ragione per un Paese come l'Italia che intorno all'industria automotive ha costruito un indotto importante. E il gioco delle deroghe, che di fatto tiene in vita i motori tradizionali purché alimentati con carburanti neutri, è altrettanto rilevante. Per questo l'Italia si è astenuta, rinunciando al voto contrario. La disputa fra e-fuel e biocarburanti, che contrappone gli interessi tedeschi a quelli italiani, si può risolvere in prospettiva arrivando ad attribuire la patente di 'neutri' anche ai biocarburanti, dimostrando che in termini di bilanciamento complessivo di CO2 contribuiscono alla progressiva decarbonizzazione del settore. Come dire, non c'è stata una vittoria ma neanche una sconfitta. E la partita è ancora aperta. Quando si parla di rapporti con Bruxelles, non si può dimenticare che l'Italia è l'unico Paese a non aver ancora ratificato la riforma del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che viene considerato uno strumento indispensabile anche per contrastare le turbolenze sui mercati finanziari, oggi legate soprattutto al rischio di una crisi bancaria sistemica. Il premier Giorgia Meloni ha ribadito che il suo governo non richiederebbe mai l'accesso al Mes ma, nonostante le posizioni diverse all'interno della maggioranza, sembra evidente che la ratifica in Parlamento sia un passaggio necessario. E dovrebbe arrivare, perché è altrettanto evidente che un rinvio ulteriore indebolirebbe la forza negoziale italiana anche sugli altri dossier. Il pensiero, in questo senso, non può che andare all'attuazione del Pnrr. Il meccanismo, del resto, è fin troppo chiaro. Si fanno le riforme strutturali, si verificano le riforme fatte, si verifica il raggiungimento degli obiettivi indicati, quindi Bruxelles eroga le risorse previste per ogni tranche. Se si inceppa questo meccanismo, i tempi si allungano come sta avvenendo in questa fase. E se gli obiettivi si falliscono, le risorse saltano, portandosi dietro anche le chances di modernizzare veramente il Paese. L'Italia, tra l'altro, è uno dei Paesi cardine dell'intero disegno del Recovery Fund, potendo contare sulla parte più consistente del Next Generation Eu, quasi 200 miliardi di euro. Non solo. Dalla corretta attuazione del Pnrr passano anche le possibilità di ricorrere allo stesso schema in futuro, continuando a condividere debito a livello europeo. Così come la possibilità di rendere più flessibile, e più orientata alla crescita, la riforma del Patto di stabilità. Sintetizzando, la partita vera, più che in un muscolare braccio di ferro tra Roma e Bruxelles, si gioca sul filo che corre tra più Europa, e più rispettosa delle esigenze degli Stati membri, e meno Europa, meno inclusiva ed espressione dei Paesi più forti, che sono sempre quelli con il debito più basso. Per questo, tra auto, Mes e Pnrr (senza dimenticare i migranti) all'Italia e al governo serve la maggiore condivisione possibile. (Di Fabio Insenga)  —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)